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Il cibo dei morti: sapori, ricordo e ritualità dell’antico culto

Dal Gargano al Salento, le pietanze che servivano unire il mondo dei vivi con quello degli antenati

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Se c’è un modo attraverso cui l’uomo ha comunicato con il divino, questo è il cibo. Agli dei, greci e romani offrivano libagioni, bruciandole affinché il fumo portasse in cielo le loro offerte. Frutti e pani votivi di terracotta sono co-muni nel mondo antico: riproduzioni di piatti rituali e prodotti della terra dal grande significato simbolico, venivano offerti alle divinità e portati presso siti di culto (se ne trovano esempi al Museo Castromediano di Lecce o al MArTa di Taranto). Soprattutto nella religiosità contadina, popolare e semplice, priva di fronzoli, le tavole spesso hanno rappresentato soglie tra il “mondo di qua” e il “mondo di là”, passaggi verso il sacro, collega-menti privilegiati in grado di connettere immanente e trascendente, materiale e spirituale, sacro e profano. Le chiavi per aprire queste porte sono state per secoli i cibi rituali: preparazioni che seguivano gesti antichissimi, confezionate principalmente dalle donne seguendo ricette che affondano le radici nella notte dei tempi. 

Uno degli appuntamenti con il “cibo sacro” è la Festa dei Morti, la commemorazione dei defunti: una festa delicata e toccante, che parla direttamente al cuore di ciascuno perché i protagonisti non sono santi lontani e intangibili, ma i più cari affetti famigliari, persone come noi che sono state conosciute e amate.


Questa festa, che ricorda uno dei culti più antichi e diffusi, il culto degli antenati, è molto sentita in Puglia e qui, come in altre parti del mondo, il cibo serve a unire il mondo dei vivi con quello dei morti.

Attraverso queste preparazioni rituali, si può leggere la storia della regione, fatta di culture in continuo incontro e scambio reciproco, di cui è rimasta traccia anche nel parlato. 

Una tradizione in uso presso i romani e i primi cristiani era il "refrigerium". Si trattava di un pasto commemorativo per i defunti, consumato presso le tombe dei cari, che recavano spesso appositi fori affinché il cibo, quel giorno, venisse compartito con loro. Da qui deriva l’uso tutt’ora diffuso nel Salento di “’ndefriscare” i morti: si “’ndefriscano” i morti quando si compie un atto particolarmente gradito al caro scomparso, per esempio mangiare un cibo che gli piaceva particolarmente, poiché con l’atto di mangiarlo è come se si facesse mangiare la sua anima. In ciascuno di questi casi con il “rinfresco” (refrigerium) si vuole offrire un sollievo a chi non c’è più. 


Dalla tradizione greca e bizantina arriva invece uno dei piatti rituali pugliesi più conosciuti e fa-mosi, anche per il nome molto evocativo: il “Grano dei morti”. Si tratta di un piatto semplice, fatto con grano cotto, vincotto, melagrana e noci, la cui preparazione è diffusa soprattutto sul Gargano e nel Barese, talvolta con alcune varianti. Piatto conosciuto anche come Colva, Coliba, Colla, termini che derivano direttamente dal bizantino Kolba e dal greco Kollyba, che indicano il grano cotto. In questo piatto il principe dei cereali è accompagnato dal più simbolico dei frutti, ovvero la melagrana che, come il mito di Ade e Persefone racconta, rappresenta il frutto dei morti per antonomasia. La tradizione di cucinare cereali e legumi per il giorno dei Morti è comunque diffusissima in tutto il meridione. Tra i legumi, ha un posto d’onore la fava, che ha un legame simbolico forte e antichissimo con il mondo dell’aldilà; la credenza che nelle fave risieda l’anima dei morti risale già agli egizi che credevano che le anime stazionassero nel “campo di fave” prima della reincarnazione. 


Anche per i romani le fave erano legate a culti degli antenati. Durante i Lemuria (9, 11, 13 maggio) il paterfamilia percorreva la casa gettandosi fave alle spalle per placare gli spiriti vaganti, mentre il 21 febbraio, per i Paternalia, si offrivano fave ai defunti. E ancora: nel Medioevo la minestra di fave veniva offerta nel giorno dei Morti ai poveri sia nei conventi sia nelle case nobiliari, similmente a quanto accade ancora oggi in paesi come Orsara di Puglia e altri. È singolare che la fava più famosa del Salento sia la Fava di Zollino, detta Kuccìa, termine derivante dal greco, usato nell’Italia meridionale per indicare proprio i piatti rituali preparati per ricorrenze come Santa Lucia e i Morti, ma attribuendolo non esclusivamente alla fava quanto piuttosto a grano e altri cereali e legumi.  

La confusione etimologica intorno al termine si può risolvere affermando che esso si riferisce ai chicci cotti, alle civaie, ovvero ai semi (che siano legumi, cereali o semi oleosi come noci e mandorle) che, con il loro valore simbolico si apprestano a diventare protagonisti delle feste invernali, Natale compreso. 


Infine, non si possono non citare alcuni dolci, veri protagonisti del giorno dei Morti. Chi crede che “dolcetto o scherzetto” sia “un’americanata”, non conosce le tradizioni europee piene zeppe di questue notturne in nome delle “anime dei morti”, per ricevere dolcetti o altri doni.  Dal Gargano a Taranto, fino al Salento, a Lecce in particolare, dove protagoniste erano le Fanfullicche, una sorta di caramelle a forma di nastrino, di tanti colori, vendute l’1 e 2 novembre all’ingresso dei cimiteri e donate ai bambini poveri.  Il cibo dei morti, diffuso ancora oggi, ricorda non solo chi non c’è più, ma anche l’importanza della socialità, che nel rito di preparazione e consumo, trova un’occasione per riaffermarsi e unirsi ancora una volta.

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