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Dal Veneto al Salento: la storia di Raffaele, potatore di ulivi

La storia di Raffaele Antonello, potatore di ulivi, salentino d'adozione, indica una via alternativa al desolante spettacolo di tronchi bruciati e alberi secchi nel Salento.

raffaele
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Fa una strana impressione, nel Salento, sentire un potatore di ulivi parlare con l’accento veneto. Forse perché sembrerebbe compromettere un inconscio senso di identità, una liturgia antica che ci si aspetta venga conservata nella sua purezza, custodita con orgoglio, preservata nel suo vocabolario. Ma anche perché è difficile considerare la provincia di Lecce una terra di immigrazione, immaginare che qualcuno abbia deciso di raggiungerla dopo aver lasciato il ricco Nord. A maggior ragione se lo si vede potare quegli ulivi che, nel tempo, gli stessi salentini hanno spesso abbandonato, per rigetto a un’economia agricola in lento e progressivo declino. “I contadini di qui dicevano che le regole per garantire la lunga vita dell’ulivo erano ‘u largu, ‘u sule, ‘a petra, l’accetta, ‘u rumatu”, spiega Raffaele Antonello.

La sua è un’inflessione particolare. Quando mischia il dialetto di Corsano all’accento marcatamente veneto ne esce fuori una cantilena meticcia, che traduce l’insolito percorso che l’ha portato a diventare potatore nel Capo di Leuca. Si racconta seduto al tavolo della cucina di casa mentre arrotola una sigaretta, aspettando il profumo del caffè che borbotta nella moka. Mentre indica col dito la tuta di lavoro abbandonata in un angolino, tra i ricci che cadono a boccoletti e la barba incolta di qualche giorno, il suo viso da quarantatreenne racconta la stanchezza della lunga giornata di lavoro. È uno specialista di potatura a “vaso policonico”, un sistema che imposta le piante su tre o quattro branche principali e, su ciascuna di queste, la chioma assume idealmente la forma di un cono.

È una tecnica innovativa nel Salento, tende a modificare l’impostazione convenzionale degli alberi perché elimina i rami biforcati che un tempo erano utili ad appoggiare le lunghe scale dei potatori, ma si ispira a principi di sostenibilità che, evidentemente, erano ben conosciuti e praticati anche dai vecchi contadini del Salento. “Le armi da giocare sono formazione, informazione, tradizione e innovazione” sottolinea, parlando del suo lavoro che incrocia quotidianamente l’attività di divulgazione promossa dalla Scuola di potatura dell’olivo, diretta dal professore Giorgio Pannelli e all’interno della quale si è appena qualificato “formatore”, dopo un’accurata selezione a livello nazionale. Lo racconta con orgoglio, perché si sente parte di una realtà che gli ha letteralmente cambiato la vita, da quando nell’ottobre del 2011 decise di trasferirsi nel Salento.

Si è spostato verso sud insieme alla ex moglie, affascinato da una terra che aveva scoperto grazie alla suocera che, 45 anni fa, durante una vacanza, si innamorò di Novaglie. Frequentò così tanto il posto da diventare per tutti “Mariolina la veneziana”. “Sono stato sempre molto dinamico”, continua, “ho cambiato tanti lavori e, prima di trasferirmi, ho frequentato un corso di agricoltura sinergica a Venezia. Sono venuto qui con l’idea di lavorare la terra”. Fu ovviamente un percorso opposto a quello di tanta gente che emigra verso Nord in cerca di un futuro meno precario. “Venezia è una realtà particolare”, racconta Antonello, “ci sono gli spettri di Porto Marghera, è una città in mano ai turisti… io poi stavo al Lido, che è un’isola, significa grigio e umidità quattro mesi l’anno: o piove da sopra o l’acqua sale da sotto”. Il Salento gli ha offerto l’opportunità di cambiare e rigenerarsi, attirato dal clima e da un mare meraviglioso.

Pochissimi mesi dopo il suo arrivo, a gennaio del 2012, frequenta a Gagliano del Capo un corso di potatura a vaso policonico. Era tenuto da Giorgio Pannelli, protagonista di una serie di incontri in tutta Italia sul modello delle vecchie cattedre ambulanti di agricoltura, pensati per formare gli operatori olivicoli, ottimizzare la conduzione delle piante, ottenere raccolti più abbondanti e continuativi. All’indomani dei tre giorni di corso, si sarebbe svolta anche la prima edizione del campionato regionale di potatura. Per Raffaele, decidere di lanciarsi nella competizione significava tutt’al più avere la possibilità di mettersi subito alla prova e valutare quanto avesse realmente appreso. Non immaginava, invece, che si sarebbe ritrovato a vincere. “A differenza degli altri io non avevo mai potato gli ulivi, forse per questo ho acquisito correttamente le informazioni”, ammette con semplicità. E così, all’improvviso, ha iniziato a praticare sul campo, giorno dopo giorno per una stagione intera, prima nell’azienda che aveva ospitato il corso, continuando poi con le potature degli ulivi di Terrarossa, la cooperativa di Tricase di cui è socio, che pratica agricoltura sociale e biologica. Fino a lanciarsi nei primi lavori per conto terzi, per i piccoli proprietari del Salento, in giro tra i paesini dove, dice, “continuo, giorno dopo giorno, a macinare esperienza”.



A vederlo all’opera sembra uno spadaccino futuristico. Non lavora arrampicato sulla scala, preferisce operare da terra muovendosi agilmente, sguainando una sega telescopica alimentata a batteria. Negli anni trasforma il suo lavoro in una quotidiana occasione di arricchimento, condivisioni, insegnamenti e confronti. A questo si aggiungono le lezioni dei corsi della Scuola di potatura, che si è trovato a gestire. Ovviamente, non è facile relazionarsi con tante opinioni diverse, e se in tanti si rendono disponibili a cercare di capire e arricchirsi, spesso il confronto perde valore perché condizionato dal pregiudizio, “a volte accettano con un po’ di fastidio che un veneziano arrivi qui per insegnare…”, dice. Sapersi mettere in discussione non è mai una pratica semplice. Guardando però lo stato di abbandono e desolazione di molte lande del Salento, sarebbe forse il caso di ritrovare un po’ di umiltà e cercare lo slancio del rinnovamento anche in una sana capacità di autocritica. D’altro canto, le parole di Raffaele non trasmettono nessuna saccenteria.

Non si tratta di condannare il passato a priori, piuttosto di avere la voglia di interpretarlo senza preconcetti. “Aveva una logica quello che facevano nella vecchia scuola, però le cose cambiano. Un tempo, per esempio, aveva senso impalcare gli alberi alti, perché sotto si piantava e le olive si raccoglievano da terra. Adesso il contadino deve essere veramente 3.0”. Il punto non è tanto quello di adottare fedelmente la pratica policonica: “in giro ci sono dei buoni potatori, si vede dalla mano se uno lo è, soprattutto se ha rispetto per le sessioni di taglio. L’importante è che si assicurino i principi generali, come l’equilibrio del rapporto tra massa fogliare e quella legnosa, tra chioma e radice, e il mantenimento di una cima per ogni branca che assicura il giusto tiraggio della linfa”.

È un po’ surreale affrontare questi discorsi in un Salento in cui ci si è ormai abituati a distese di ulivi tristemente capitozzati. Raffaele consuma la sigaretta e con l’ultimo tiro fa cadere la cenere in un piccolo contenitore di alluminio. Accavalla le gambe e con un sorrisino sereno ammette il suo ottimismo. “Nella storia, una specie vegetale non si è mai estinta per colpa di un patogeno”, dice ribadendo come in un periodo così buio per il Salento, l’importante sia continuare a parlare con la gente, condividere le conoscenze, formare produttori e consumatori. “L’obiettivo della Scuola di potatura è di conciliare la sostenibilità ambientale con quella economica”, spiega, “bisogna considerare che la durata fisica dell’ulivo non corrisponde alla sua vita economica”.

In questo senso, ripete quanto sia importante impostare una buona potatura in grado di assecondare la prospettiva di crescita della pianta e permettere un buon compromesso tra le esigenze dell’albero e quelle del produttore. “La potatura a vaso policonico”, continua, “non è adatta per l’olivicoltura superintensiva, i cui impianti durano quindici anni e hanno bisogno di tanta acqua e trattamenti chimici. Lo è per l’impianto largo, perché l’ulivo per sua natura si espande in volume”. Il suo è un discorso lungo e complesso, riguarda i fabbisogni dell’agricoltura industriale, i suoi costi sul lungo periodo e l’alternativa offerta da un sistema di produzione che invece cerca di convivere il più possibile con la biodiversità del pianeta. È un discorso complesso e affascinante, che si articola nello scambio e nella polifonia. Che si arricchisce anche della parlata veneziana di un medagliato potatore del Capo di Leuca. 

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