Il segno oltre l’ordinario guardare
Si apre, si espande, l’occhio corre vorace sulle grandi tele, accelera sul colore saturo, si aggrappa al nero netto delle linee e divora chiavi, foglie, uccelli, code, pistole, maschere, croci, ali, fulmini e biciclette. Interno giorno, sotto una volta a botte, Massimo Pasca cammina tra i suoi lavori combattendo con l’imbarazzo di essere al centro dell’attenzione. È nel cuore della casa rosa annessa all’antico stabilimento vinicolo di famiglia, oggi dismesso, all’ombra di un pino altissimo sulla provinciale Sannicola Alezio. Prepara il caffè in una cucina d’altri tempi, tra il camino e un mobiletto che ha interamente rivestito di fumetti quando, nel 2012, ha scelto di tornare nel Salento. Qui ha allestito il suo nido creativo, lo studio che, si scusa, è un po’ in disordine ma di meglio non sapeva fare. Eppure a un occhio estraneo questo luogo risulta straordinario, oltre l’ordinario guardare, reso unico dai suoi lavori che parlano loquacissimi la lingua universale dell’immagine. E dell’immaginario.
Massimo Pasca, classe 1974, è pittore e illustratore, musicista, performer teatrale e ha una variopinta storia da raccontare. La narrano, in vece sua, le opere e gli oggetti, i libri, i riconoscimenti conservati in ordine dove un tempo era la stalla della tenuta. Si fanno notare subito, nonostante le piccole dimensioni, il disegno realizzato per l’album “HELLdorado” dei Negrita (Black Out 2008) e la copertina allucinogena dell’album “L’ora di tutti” dei Muffx (Black Widow 2017), ispirata dall’omonimo romanzo di Maria Corti sull’assedio dei turchi a Otranto: per rappresentare alcuni elementi, sembra quasi che alla mano di Pasca si sia sostituita quella medievale di Pantaleone, autore del celebre mosaico nella cattedrale idruntina. Eclettico e molto colto, di quella cultura viva, poco teorica, costruita giorno dopo giorno lasciandosi guidare dalla passione, i suoi maestri sono artisti e intellettuali di tutti i tempi. Sul poster di Jean-Michel Basquiat è incollato un mazzetto di dread scuri, capelli veri di quando col soprannome di “Papa Massi” cantava nei Working Vibes, il gruppo fondato a Pisa nel 2001 insieme ad alcuni amici. Nella città toscana è rimasto vent’anni: si è laureato all’università in Conservazione dei Beni Culturali per scoprirsi presto scenografo e live painter, dipingendo dal vivo e “sperimentando dall’astratto al surrealismo fino alla pop art influenzata dal mondo dei fumetti”.
Alcuni miti del giovane Pasca hanno origini salentine, come Carmelo Bene che in questa stanza, su una tela in bianco e nero appoggiata al pavimento, spegne l’ennesima sigaretta nella sabbia di una clessidra. Le ispirazioni sono molteplici: “Pasolini è il mio ideale, un artista poliedrico che ha sperimentato su tutto”. Ed eccolo sulla parete, ritratto nel momento della tragica fine, in un’opera che cita “La morte di Marat” di Jacques-Louis David ed è un vero schiaffo visivo. Tutto intorno, segni, tracce senza sosta. Da brusio di fondo, diventano il codice di un horror vacui che è forse una poetica della pienezza. Come un timore di non dire abbastanza. Perché in ogni opera di Massimo Pasca c’è (almeno) un messaggio, che sia un’accusa o una speranza, un omaggio, una presa di posizione. Anche se, da artista umile, sincero, afferma che “il quadro lo completa chi lo guarda”.
Quando viveva a Pisa, negli occhi di Pasca brillava anche il coloratissimo testamento visivo di Keith Haring, il murale “Tuttomondo” sulla facciata della chiesa di Sant’Antonio Abate. L’ultima opera pubblica dell’artista statunitense, scomparso poco dopo averla completata, ha lasciato un segno indelebile nel tratto fitto di questo ragazzo che continua a scusarsi perché il disordine è il suo “metodo” creativo. L’improvvisazione guida le sue mani: “quando mi rimetto a lavoro non ricordo cosa stavo facendo prima di interrompere”. Se gli si chiede di disegnare, Massimo Pasca non esita un secondo. Ha davanti dei fogli con alcune grafiche ancora incompiute e, senza esitare cercando il filo del “discorso”, appena la penna si posa sul foglio inizia a tracciare dei segni, come se mente, mano, penna e superficie fossero sempre connessi. Prima di operare in questo modo, però, ha affinato la sua abilità tecnica: “solo così si arriva a uno stile personale, riconoscibile”. Si può dire comunque che esista una regola nella sua arte? “Non uso la matita, non ripasso mai un disegno perché toglierebbe energia alla linea”. Nessuna revisione, quindi, perché in un certo senso “quello che faccio è tutto sbagliato e quando tutto è sbagliato niente si può correggere”.
Tra i libri che sta leggendo c’è “Cromorama” di Riccardo Falcinelli (Einaudi 2017), lo prende in mano per dire l’importanza dei colori e degli accostamenti. Massimo Pasca ha in mente, sempre e comunque, “la forza del colore e della luce salentina, come quando chiudi gli occhi dopo un giro in Vespa in campagna, tra i papaveri”. Di questa terra ha fatto proprio anche il linguaggio rigoglioso del barocco, che si trasfigura nei chilometri di linee spesse e decise tracciate con gli inseparabili pennarelli UniPosca su ampi fondi dalle tinte forti, acriliche, prive di sfumature. Una trama di simboli, icone, geometrie che mettono insieme i geroglifici e i mandala, i murales e la scrittura automatica. Ma c’è anche tanto, tantissimo senso dell’umorismo e c’è la raffinatissima arte del sarcasmo, talvolta velata di amarezza. Per averne prova basta mettersi davanti alla “Gioconda ma non troppo” e a Frida Kahlo, che formano un dittico polemico contro la società fallocratica: la Monna Lisa ha curato l’ansia con una brutale evirazione e ha appeso all’amo l’imbarazzante trofeo. Ad un amo identico, voluto richiamo alla prima persona presente del verbo amare, la signora della pittura messicana ha appeso invece il proprio cuore, lasciando gocciolare la rossa sofferenza su quel “grandissimo maschilista” che era Diego Rivera, ostinato oggetto d’amore. Come si chiama quest’opera? “Frida una lacrima al vento”.
Ed ecco uno dei tanti giochi di parole di Pasca, che ha un tantino modificato il titolo della canzone di Adamo, “Affida una lacrima al vento”. Per non parlare dell’insolito black block “San Sebastian contrario”, uno dei “Santini Sbizzantini” che compongono l’omonima esposizione scanzonata e arguta, nell’osteria La Vera Tipica di Martano fino al 13 maggio. Ma di mostre ne fa poche (così dice, sebbene ne abbia già collezionate un centinaio e stia lavorando a quella che tra due anni sarà allestita a Montreal), perché non prende l’aereo e spesso espone “in contumacia”. Preferisce dipingere dal vivo, e se proprio deve autodefinirsi in qualche modo, Massimo Pasca dice di essere un live painter: uno che volta letteralmente le spalle al pubblico e regala a tutti l’intimo processo della creazione e il suo “segno libero”, magari mentre qualcuno suona. Qualcuno come Piero Pelù, la Bandabardò, Roy Paci, i Cor Veleno. È vitale, per lui, il contatto umano, la collaborazione. Non a caso firma e interpreta anche la performance “La stanza surrealista”, sul palco con Max Nocco e Giuseppe Apollonio. E non è un caso se si è impegnato con entusiasmo nel lavoro a più mani da cui è appena nata la rivista “Lamantice”, progettata con altri cinque illustratori, che interpreta per immagini fatti recenti della cronaca internazionale.
Forse è stato spremuto a sufficienza, Massimo Pasca, come potrebbe essere spremuta l’arancia matura sulla cui buccia disegna, mentre è vessato dalla curiosità un po’ morbosa di questi visitatori occasionali e da troppi scatti fotografici. Mancherebbe giusto un interrogativo dal sapore marzulliano, del tipo: si faccia una domanda e si dia una risposta, signor Massimo Pasca. Ma, colpo di scena, è un suo disegno a prendere la parola, mettendo tutti definitivamente a tacere: “Chi ha morto Endy Uorol? Chi l’ha morto sei tu”.
di ALESSANDRA GUARESCHI, fotoservizio MASSIMINO FOTO